È dall’alba dei tempi che la filosofia cerca di fare giusto giusto delle cosine da niente.
I Presocratici, per esempio, cercavano il principio unico che è causa di tutte le cose. E c’era chi diceva l’acqua, chi l’apeiron, chi l’aria o il fuoco... I più fantasiosi dicevano addirittura che il mondo viene dalla armonica lotta dei contrari. Dopo di loro, però, la domanda è un po' cambiata, e al centro della disquisizione è arrivato questo essere unico e irripetibile che è l’essere umano. Al centro della questione, siamo arrivati noi. E così la filosofia si è messa a riflettere su chi fosse davvero questo essere. A cercarne una definizione. Che cosa distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi? Qual è quella cosa che lo rende tale, che senza di lei l’uomo smetterebbe di essere uomo?
Una “cosina da niente”, dicevamo. E con le riflessioni e le definizioni, soprattutto da Socrate in poi, i filosofi si sono sbizzarriti. Secondo qualcuno, l’uomo è un animale razionale e politico (dai, questa è facile, Aristotele ce lo ricordiamo tutti). Secondo qualcun altro, e in maniera diametralmente opposta, l’essenza dell’uomo è materiale, e il suo bene, nonché principio e fine dell'agire, è il piacere (con Epicuro non ce la passavamo così male).
Potremmo andare avanti per ore, anzi, per secoli, proprio come hanno fatto loro. E ci sono anche quelli per cui queste definizioni sono in ogni caso impossibili da confermare, in quanto l’uomo è quell’essere complicatissimo e contraddittorio in cui convivono luci ed ombre, ragione e sentimento, tesi e antitesi. E non hanno tutti i torti.
Proviamo però lo stesso a rilanciare dicendo che l’uomo è un essere loquens, perché è innegabile che abbia la facoltà del linguaggio, la capacità di parlare. Solo? Ennò, perché anche gli animali comunicano tra di loro. In un linguaggio diverso, questo è vero, ma si trasmettono pur sempre delle informazioni.
C’era un biologo, per esempio (e non uno qualunque, dato che le sue scoperte gli hanno valso il Premio Nobel per la Medicina nel 1973), di nome Karl von Frisch, che è riuscito per primo a decodificare il linguaggio delle api.
Secondo i suoi studi, quando un’ape trova il proprio nutrimento, ritorna all’alveare e indica alle compagne la sua posizione attraverso due tipi di danza: traccia dei cerchi se il cibo è vicino, disegna il simbolo dell’infinito se la distanza è maggiore. Quindi, l’ape (X) traccia delle figure per le sue compagne (Y) in riferimento al loro nutrimento (Z). E così facendo istituisce un nodo dotato di senso, un testo.
Anche il nostro caro Aristotele diceva una cosa simile. Il discorso è fatto di tre elementi: chi parla (X), colui a cui si parla (Y), ciò di cui si parla (Z). Ma qualcosa non torna, o verrebbe il sospetto di essere tali e quali a delle api. Esserini meravigliosi e importantissimi, questo sì, ma non abbiamo forse qualcosina in più, noi?
Risposta breve: sì. Perché oltre ad essere loquens, l’uomo è un essere E-loquens.
Risposta lunga: sì, e infatti c’è una sostanziale differenza tra trasmissione di informazioni e comunicazione. Il linguaggio degli animali si limita a trasmettere. L’ape inoltra un certo messaggio alle sue compagne, senza preoccuparsi minimamente che quelle lo ricevano adeguatamente o ne comprendano il contenuto. Non si cura neppure che possano rispondere, in un modo o nell’altro, alla sua danza. In poche parole, all’azione dell’ape che indica alle compagne dove si trova il cibo può seguire solo la mera reazione dell'andare a recuperarlo.
Oggi, quindi, abbiamo scoperto una cosa importante: l’uomo non è un’ape (sconvolgente, lo sappiamo). Per chi già lo sospettava, che occhio! Per chi aveva qualche dubbio, c’è tutto un ragionamento che lo dimostra.
In ogni caso, le puntate che parlano di questo bel connubio tra filosofia e linguaggio saranno tre. Quindi ti aspettiamo alla prossima.
Per domande sul linguaggio o sulle api, scrivici a supernova@remidastudio.com.