C’è una leggenda sommersa tra le acque del Mediterraneo: Ferdinandea, un’isola vulcanica che per un breve momento, nel 1831, si mostrò al mondo prima di essere inghiottita di nuovo dal mare. Una presenza effimera, ma carica di significati. Oggi, quel nome vive ancora, non tra le onde, ma tra le colline della Sicilia, dove Serra Ferdinandea racconta una storia di rinascita e connessioni. È qui che Cecilia Carbone ha trasformato un terreno dimenticato in un organismo agricolo pulsante di vita, un esempio di come passato e futuro, natura e cultura possano intrecciarsi per creare un nuovo modello di sostenibilità. Ma la storia di Cecilia è molto più di questo. È un viaggio che attraversa continenti e passioni: dalla musica alla finanza, dalla Liguria a New York, per approdare infine in Sicilia, dove ha trovato una casa non solo fisica, ma anche ideale. Un luogo dove la terra, come il linguaggio, diventa uno strumento per costruire legami, esplorare idee e affrontare le sfide del nostro tempo. E così, tra grani antichi, vigne e api nere sicule, la conversazione con Cecilia Carbone non si limita a raccontare un progetto agricolo. Parla di visione, di coraggio e di quella forza unica che nasce quando mondi diversi si incontrano. Perché, come scopriremo, nessuna isola è davvero un’isola.
REMIDA incontra Cecilia Carbone
L: Cecilia, raccontaci il tuo percorso.
C: Sono nata a Genova, ma sono cresciuta a Hong Kong per il lavoro di mio padre. Dopo il conservatorio, ho studiato economia e finanza alla Bocconi, anche se all’inizio volevo fare matematica applicata. Durante l’università ho lavorato in una brokering firm a Londra, ma non era la mia strada. Così, dopo la laurea, sono tornata dai miei genitori in Liguria e ho iniziato a fare la cameriera in un ristorante. È lì che ho conosciuto un cliente che mi ha offerto un lavoro a New York. Mi sono trasferita e ho cominciato a lavorare con brand italiani nel settore food. Poi ho deciso di lasciare tutto e fare un road trip in California, durante il quale ho capito che volevo studiare all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. È stata un’esperienza bellissima, e grazie a un professore ho conosciuto Alessio Planeta. Mi ha detto: "Vuoi venire da noi?". Non ero mai stata in Sicilia, ma ho accettato.
L: Che cos’è Serra Ferdinandea?
C: Serra Ferdinandea è un sogno che si è trasformato in realtà. Nel 2019 mi sono trasferita per lavorare a un progetto che univa agricoltura e sostenibilità. Insieme a Planeta e ad una famiglia francese, abbiamo trovato un terreno vicino a Sciacca, una zona che non era stata toccata dall’agricoltura per oltre 400 anni. Volevamo dimostrare il potenziale agricolo della Sicilia e, allo stesso tempo, creare un modello che rispettasse la biodiversità e il territorio. Oggi abbiamo 110 ettari, di cui 60 di bosco, che coltiviamo in modo biodinamico. Abbiamo vigneti, grani antichi come il “Perciasacchi” e il cece Sultano, ma anche 250 alberi di fico bianco e tante api nere sicule. È un vero e proprio organismo agricolo, dove ogni elemento è interconnesso. Il nostro obiettivo non è solo produrre, ma anche preservare. Serra Ferdinandea vuole essere un esempio di come l’agricoltura possa essere resiliente, soprattutto in un’epoca di cambiamenti climatici. Non penso che sia un modello da copiare, ma un laboratorio da cui prendere spunti per migliorare. Voglio che sia un luogo di dialogo e confronto, dove si possono immaginare nuove soluzioni per il futuro.
L: In Sicilia ti senti a casa?
C: Casa, per me, è un luogo dove posso fare la differenza. Non è tanto una questione geografica, quanto di possibilità. In Sicilia sento di poter mettere le mani, di poter costruire qualcosa. Serra Ferdinandea mi ha dato un senso di ordine, mi ha permesso di connettere tutte le esperienze che ho vissuto. Qui riesco a fare cose in cui credo davvero, e questo mi fa sentire a casa.
L: Che cos’è il mondo per te?
C: Il mondo, per me, si riassume in tre parole: empatia, mobilità e conservazione. Empatia è la capacità di condividere emozioni autentiche. Mobilità significa valorizzare le risorse, trovare equilibrio, anche nell’agricoltura. Conservazione è lasciare alle generazioni future un mondo migliore, un’eredità di cui possano essere orgogliose.
L: E che valore hanno le parole?
C: Le parole sono fondamentali. Sono il nostro biglietto da visita, ciò che ci definisce. Ho imparato da mia nonna, che era linguista, a rispettarle e a usarle con cura. Oggi, però, trovo che il linguaggio stia perdendo valore. È troppo veloce, troppo superficiale. Nel settore agricolo, in particolare, c’è poca consapevolezza del potenziale delle parole come strumento di identità. Credo che ci sia bisogno di più pazienza, perché parlare – come coltivare – richiede tempo.
L: Progetti per il futuro?
C: Vorrei che Serra Ferdinandea diventasse un modello di rigenerazione, non solo agricola, ma anche culturale. Mi piacerebbe sviluppare sistemi agricoli per rigenerare territori devastati dalle guerre. E, più di tutto, vorrei che il nostro progetto fosse un luogo di dialogo, dove affrontare i grandi temi del nostro tempo.
Se questa Serra Ferdinandea è un luogo che parla di connessioni, tra la terra e il mare, tra il passato e il futuro, tra la tradizione agricola e le sfide climatiche… Cecilia Carbone ci mostra come un sistema possa essere laboratorio vivo di cross-pollinazione. Dove il grano antico dialoga con le api sicule, dove le vigne convivono con i fichi, e dove ogni elemento concorre a creare qualcosa di più grande. È qui che si gioca la vera innovazione: nella capacità di connettere elementi diversi e dare loro un nuovo significato. Perché alla fine, la terra, le isole, e la vita, sono solo grandi sistemi aperti. Ogni connessione conta. Make it count: supernova@remidastudio.com.