Was it all a dream?

  • Metodo Psicosociale
  • Tutti
  • Lettura: 3 min
  • 22.04.25
  • La parola, nel Rap: parte 3



    Negli ultimi anni, il rap ha attraversato una metamorfosi radicale che lo ha portato a dominare l’industria musicale globale. Ma questa espansione ha portato con sé sfide complesse e contraddizioni profonde. Oggi il rap è un caleidoscopio di stili, influenze e tecniche, oltre che un prodotto industriale, soggetto a dinamiche di mercato che ne hanno trasformato l’essenza. Se la Golden Age esaltava la parola come strumento di verità e gli anni 2000 ridefinivano il rapporto tra testo e melodia, l’era contemporanea si trova a fare i conti con una tensione tra autenticità e produzione in serie. In questo contesto, la parola cambia ancora una volta ruolo, diventando spesso un mezzo per catturare attenzione immediata, sacrificando parte della sua profondità.



    Manuel Agnelli, in una recente intervista, ha definito questo fenomeno come una rappresentazione precisa della società contemporanea: “La musica mainstream è lo specchio dei ragazzi di oggi e del mondo in cui vivono”. E questa immediatezza produttiva, pur funzionando dal punto di vista industriale, rischia di impoverire culturalmente il genere, e la società nel suo insieme. “La cultura non può essere solo fan-service: deve guidare, non seguire”, ha aggiunto il frontman degli Afterhours. L’industria musicale contemporanea ha infatti costruito un sistema perfettamente ottimizzato per massimizzare numeri e guadagni, ma questa corsa alla performance ha un prezzo. La produzione di rap e trap si è industrializzata: basi simili, temi ricorrenti, autori e produttori che lavorano per una moltitudine di artisti, spesso senza differenze significative nello stile. Il risultato? Brani che si assomigliano e che sono realizzati per adattarsi agli algoritmi delle piattaforme di streaming. È una dinamica che “funziona” nel breve termine, ma rischia di lasciare un vuoto creativo e sociale nel lungo periodo.



    Questo non significa che non ci siano artisti capaci di riportare profondità alla parola. Rapper come Kendrick Lamar o Killer Mike dimostrano che il verbo può ancora essere un’arma di resistenza e di cambiamento. Il loro lavoro riflette una consapevolezza storica, sociale e politica che richiama le radici del rap, dimostrando che anche in un sistema industrializzato esiste spazio per l’autenticità. Il rap contemporaneo vive quindi una tensione costante tra la sua natura di arte e il suo status di prodotto industriale. La parola, un tempo centro del discorso, oggi lotta per trovare il suo spazio in un mondo che premia l’efficienza più della profondità. Eppure, la storia del rap (...e non solo!) ci insegna che la parola ha sempre saputo adattarsi, reinventarsi, trovare nuove forme per esprimere verità e bellezza.



    Il viaggio attraverso le epoche del rap ci ha portato qui, a chiederci perché Remida abbia voluto ripercorrere questa storia. Perché sia che si tratti del bisogno di farsi sentire della Golden Age, o del bisogno di esprimere se stessi degli anni 2000, o persino della tensione industriale contemporanea, c’è un fatto che non possiamo ignorare: senza la parola, il rap non sarebbe mai esistito. La musica classica avrebbe continuato a vibrare nei teatri, la musica elettronica avrebbe pulsato nei club, ma il rap? Il rap vive e respira nella parola, ed è per questo che ce ne siamo innamorati. Perché come il rap, anche noi crediamo che la parola sia molto più di un mezzo, è un atto creativo, il ponte tra chi siamo e chi vogliamo essere.



    E quindi, per chiudere con il flow giusto: It ain’t where you’re from, it’s where you’re at (Rakim). E con Remida, siamo esattamente dove vogliamo essere: al centro della parola. Scrivici qua: supernova@remidastudio.com.

    Stay Golden

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