La Cultura? È Performativa.

  • Interviste
  • Tutti
  • Lettura: 3 min
  • 18.06.24
  • Di formazione filologo e storico dell’arte, è curatore, direttore artistico e drammaturgo. Ha collaborato con istituzioni tra le più illustri: Università della Sorbonne, Università Bocconi, Sciences Po Paris, Accademia di Francia a Roma, Museo Nazionale Romano, Teatro Greco di Siracusa, Hermès Italia ed International. “Ho vissuto molte vite”: in quella di oggi è Presidente della Fondazione Antico Ospedale Santa Maria della Scala a Siena e membro del comitato artistico in qualità di esperto per le Arti dello Spettacolo e la Performance della Fondazione Nuovi Mecenati.



    REMIDA incontra CRISTIANO LEONE



    … E il fregio alle sue spalle. Dovete sapere, cari lettori, che Cristiano ha il migliore sfondo che possa capitare agli habitué delle video-call: un Mitreo, spiega, con il Sole, la Luna, e gli animali che conducono Mitra verso il toro, dal cui sacrificio ha origine la cosmogonia.

    L: Lo sfondo più bello che io abbia mai visto in una call. E ancora più bello dopo la tua descrizione. Parliamo di questo, oggi. Dell’arte e della sua comunicazione. Da dove inizia il tuo impegno in questo mondo?

    C: Inizia dalla volontà di fare ricerca, dall’idea di divulgare e condividere gli elementi di una cultura a volte dimenticata. Dalla mia attività nell’ambito dell’insegnamento universitario, alla scrittura del mio ultimo libro, Atlas of Performing Culture. Nella mia carriera, però, c’è sempre stata una commistione tra due aspetti: una parte teorica ed una applicativa. Un “vincolo performativo”, che mi ha permesso di immaginare e applicare un nuovo modello di relazione: tra lo spettatore, l’opera d’arte, e il contesto in cui è calata.

    L: Siamo affascinate. In che senso affermi che la “cultura è performativa”?

    C: Partiamo dal mio libro, dove si indaga il legame tra performance art e spettacolo dal vivo. Soprattutto oggi, nell’epoca del hic et nunc, dove basta aprire Instagram o Tik Tok per vedere realizzata l’idea shakespeariana del “All the world's a stage”... Oggi tutto il mondo è palcoscenico. Un palcoscenico globale, virtuale, digitale. A questo tema, per esempio, è dedicato il progetto “Lo Specchio d'Acqua alle Terme di Caracalla”: l’acqua, palcoscenico primordiale, permette di raddoppiare l’immagine del monumento, e quindi la performance stessa di cui esso si fa teatro. L’atto performativo tesse sempre un filo tra il patrimonio (storico, archeologico, culturale…) e chi ne è fruitore. Il potere della performatività consiste nel creare una comunità, tenuta insieme dal momento, unico, irripetibile, che essa sta vivendo. Tanto più potente in quanto effimero: poiché legato al contesto, agli spettatori, alle emozioni che circolano fra essi e gli attori. È questo che lascia una traccia nello spirito del mondo.



    Ed è proprio questo che amo indagare: la persistenza dell'effimero.



    L: Cos’è per te la bellezza?

    C: È un’esplorazione dell’equilibrio – o del disequilibrio – tra contenuto e forma. Non è un canone già definito, ma un prodotto che veicola un messaggio. Un messaggio che varia continuamente, ed ecco perché l’idea di bellezza cambia nel tempo. Bellezza, intesa come esplorazione, è anche il tentativo di fotografare ciò che è presente, e di interpretare il tempo in cui si vive. Da un punto di vista personale e umano, invece, per me è la ricerca dell’umanità. Ciò che è inequivocabilmente bello è la relazione umana.

    L: Faccio un passo più in là. Se il bello crea una connessione tra le persone… è quindi questa la funzione dell’arte?

    C: Più che di arte, parlerei di cultura: se la cultura non è performativa, cioè se non crea una relazione… allora non è cultura. E allo stesso modo, se un’esperienza artistica non offre una chiave interpretativa, è riuscita solo a metà. E non esiste gerarchia tra le diverse forme artistiche: la danza classica ha lo stesso valore di uno spettacolo di strada. Esiste un’arte bella e un’arte brutta, certo, ma non è una differenza tra arte di serie A e arte di serie B.

    L: Rilancio: esiste arte senza performatività?

    C: Non credo. Per esempio: la letteratura è performativa? Sì: se uno scrittore scrive un libro che non viene letto da nessuno, è come se quel libro non esistesse. Anche la letteratura, quindi, è performativa: quante volte è capitato di leggere un romanzo a distanza di anni, e di trovarlo diverso… Quante volte una stessa cosa ci appare differente a seconda di come ci sentiamo noi in quel momento…



    Arte è relazione: mai fine a sé stessa, ma mossa dal desiderio di esprimere un messaggio per gli altri.



    La comunicazione le è essenziale, così che l’arte diventa linguaggio: uno dei mezzi di espressione con cui l’uomo esplora il mondo, trasmette ciò che trova, e si relaziona con gli altri.

    L: Arriviamo quindi all’importanza del contenitore: il simbolo è un contenitore. Il linguaggio è un contenitore, che crea uno spazio per parlare e confrontarsi. Medea è un simbolo, Medea è un contenitore che all’interno si tiene certe cose. Così come Orfeo ne tiene altre…

    C: È proprio questo che fa la performance art: è un’azione che si svolge, dal vivo, in un determinato contesto, in un determinato spazio-tempo. Si radica nel passato, si rivolge al presente e guarda al futuro: è una temporalità spaziale in cui avviene un’azione. Un progetto artistico che viene creato per un certo luogo, e per una certa missione. Così, lo spazio smette di essere “location”, e diventa appunto contenitore, palcoscenico, forma.

    L: Si tratta allora di una questione di “scelta”. Non è che De Chirico le forme non le sapeva disegnare. È che voleva rappresentarle così. La Direzione Linguistica® fa proprio questo: non è usare le parole belle, ma scegliere quelle giuste, con consapevolezza.

    C: “Le parole contano”, diceva Nanni Moretti. E una questione su cui mi sono recentemente interrogato è quella che riguarda l’uso dell’Intelligenza Artificiale nella produzione dei testi scritti. Ci sono dei software a cui è richiesto di suscitare un determinato spettro emotivo nel lettore.



    Il lavoro della macchina sulla dimensione stilistica si accompagna, quindi, ad un’integrazione emotiva.



    L: Non hai paura che lo strumento sostituisca il fine? Che la macchina possa accedere al fare artistico, e sostituirsi alla creatività propria dell’umano? Insomma, c’è il rischio di essere depredati di quello che ci definisce in quanto umani, cioè il fare arte?

    C: Non sono certo che il fare artistico appartenga solo all’essere umano. Non dimentichiamo che l’arte, in fondo, è un mestiere: certo c’è chi lo fa bene, e chi invece lo fa male. È una capacità intellettuale, non divina. L’artista non è un super uomo o un mezzo dio. È un percorso, un’abilità, dove le idee nascono da connessioni tra neuroni.

    S: Qual è allora il rapporto tra natura e cultura? Tra Natura e Artificio? E dove si posiziona l’arte tra questi due estremi?

    C: Il nostro stesso corpo è natura. Nella performance art, quando si lavora con il corpo, non si può pensare di astrarre dalla natura. Al contrario, la si sta mettendo in scena.



    Nel mondo, noi siamo con il nostro corpo. Le idee sono frutto di processi chimici. La natura e i suoi elementi fisici determinano il nostro esserci, in uno spazio ed in un tempo. E determinano anche, allora, la parte "immateriale" che da sempre nel nostro corpo esiste.



    Alcuni la chiamano anima.



    Grazie a Cristiano, per la bella connessione. E grazie a voi, cari lettori: se la curiosità vi solletica, scriveteci a supernova@remidastudio.com

    Stay Golden

    Iscriviti alla newsletter di Remida e ricevi tutte le nostre uscite