Mentre parla con noi, Ilaria Maria Sala è al Museo del Tessile di Hong Kong. Le immagini che da lì condivide rispecchiano la storia che racconta di sé, del suo mestiere e di questa città dove ha scelto di vivere e scrivere. Perché ad oggi “è ancora la città più cosmopolita dell’Asia, dove è possibile mantenere uno sguardo ampio senza essere assorbiti nella sua complessità”. Una penisola che è tante isole insieme, dove tutto cambia vorticosamente e dove tessere il filo fra la pluralità di lingue, volti e paesaggi… diventa una storia che non ha mai fine.
REMIDA incontra Ilaria Maria Sala
L: Quando nasce la tua passione per la scrittura?
I: Quasi non me lo ricordo! Penso di aver voluto scrivere prima ancora di saperlo fare. Fin da piccolissima, a 3 o 4 anni.
L: Su Instagram ti descrivi come scrittrice, ma anche come ceramista. Cosa accomuna queste due attività?
I: La ceramica è un modo di esprimersi senza parole. L’ho scelta per motivi geografici – qui ha un’innegabile importanza storica, artistica ed anche commerciale – ma anche perché è un media flessibile. Isamu Noguchi diceva che il marmo ti resiste, il ferro ha una sua opinione, mentre la ceramica si lascia fare tutto. Io, che non ho velleità da macho, la apprezzo molto proprio per questo. Mi ha insegnato ad abbandonare il perfezionismo, ad attaccarsi un po' meno ai risultati: la ceramica è frangibile, anche quando è stato fatto tutto perfetto.
L: È senz’altro un lavoro di pazienza, un po’ come la scrittura. E a proposito del tuo libro “L’eclissi di Hong Kong”: come è stata la tua esperienza editoriale?
I: L’idea è nata fra il 2019 e il 2020, con l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale che ha scatenato diverse manifestazioni e ha delineato nettamente un prima e un dopo di essa nel tessuto politico di Hong Kong. La sfida consisteva nel catturare elementi di rottura, ma anche di continuità, ovvero quelli che rendono un luogo quel luogo. Sono la lingua, la cultura, la religione, le abitudini alimentari e quotidiane. Hong Kong è una città relativamente piccola, ha 7 milioni di abitanti ma è molto più stratificata e complessa di quello che pensiamo. Chi è arrivato qui dalla Cina o dall’ex Impero Britannico si è portato dietro la propria storia. E per chi è appassionato di storie, Hong Kong è davvero il posto giusto.
L: Se dovessi distillare il carattere di Hong Kong, come lo definiresti?
I: Nostalgia, da un lato. Determinazione, dall’altro: è una città di rifugiati, quindi la pervadono sia il desiderio di migliorare la propria situazione che la convinzione che sia possibile farlo, attraverso la forza di volontà. Con una grande energia: quando ti lasci alle spalle ciò che conosci, devi per forza aprirti a quello che trovi.
L: Cosa intendi per “nostalgia” in questo caso?
I: Si tratta di una componente identitaria, dovuta al cambiamento quotidiano e imprevedibile che caratterizza Hong Kong, diverso da quello fisiologico di ogni metropoli. Conosco persone che la fotografano in maniera compulsiva per conservarne la memoria estetica, visto il rischio di vedere elementi simbolici improvvisamente eliminati o trasformati. Da una parte, le massicce ondate migratorie hanno richiesto che si facesse spazio ai milioni di persone in arrivo, che si ricostruissero da zero interi quartieri. Dall’altra capita che di punto in bianco oggetti quotidiani e familiari non siano più reperibili a causa della forte influenza delle industrie su una città essenzialmente capitalistica: è quello che succede quando, ad esempio, una di loro sceglie di trasferire la propria sede di produzione in Cina. Oppure quando il governo decide di intervenire nella politica urbana smantellando strutture tipiche come le impalcature edilizie in bambù, o chiudendo i luoghi in cui si radicano i ricordi della collettività, come il vecchio molo dello Star Ferry dove una generazione intera è andata a farsi le foto da appena sposati. È la nostalgia di qualcosa che davi per scontato, che arriva come uno shock e che fa sentire una certa mancanza di determinazione nella propria vita.
L: Qual è allora il ruolo del linguaggio nel mediare e “meditare” una cultura?
I: Qui la maggior parte delle persone parla cantonese, mandarino e un po’ di inglese. In Cina, per esempio, questa complessità è soffocata in nome della funzionalità di un’unica lingua: ci si può facilmente convincere che esista solo il mandarino – nonostante sia stato inventato e imposto dal governo – mentre il resto è ridotto a un mero dialetto. È così che la Pechino di oggi definisce il cantonese, benché sia più antico e parlato da 80 milioni di persone. L’antica poesia cinese, addirittura, rima in cantonese e non in mandarino. Io non credo in questa logica di gerarchizzazione delle lingue, e Hong Kong ti insegna a valorizzarle tutte.
L: Il linguaggio ti sembra più un ponte o una barriera?
I: Un ponte, senza dubbio. Per esempio, il mandarino aveva smesso di piacermi, ma una bella conversazione me l’ha fatto riscoprire.
L: Un arcipelago, quindi, più che un’isola.
I. Decisamente, proprio come Hong Kong. Tanto che il linguaggio assume per me un potere terapeutico: nei momenti più complicati della mia vita, mi sono sempre buttata nello studio di una nuova lingua. Durante il Covid, per esempio, il mio viaggio di lavoro in Svezia era stato annullato: e per questo ho iniziato ad imparare lo svedese.
L: E quando sogni, in che lingua lo fai?
I: Non saprei, in fondo sto dormendo. Ma credo di sognare più o meno come vivo: in tutte le lingue che la mia mente ha a disposizione.
E tu, (in) che lingua sogni? Raccontacelo a supernova@remidastudio.com.