About “Queer”

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  • By Lisa Pelagatti
  • Lettura: 3 min
  • 22.05.25
  • ATTENZIONE: la seguente recensione è altamente personale, politicamente scorretta, educata malamente. Se vi aspettate una review pettinata, meglio non leggere. Se invece cercate una connessione umana non filtrata, prego: è per di qua.



    Quando le luci si sono alzate, nel mio cinema di provincia, alla proiezione delle 21, l’unica in lingua originale… Ho avvertito un grande senso di protezione. Avevo appena visto “Queer”, con il mio ex, peraltro: eravamo riusciti finalmente a condividere un momento insieme, anche senza parlare. Senza il bisogno di scagliarci addosso parole che ultimamente, incomprensibili com’erano, potevano solo ferirci e ferirci ancora.



    Un grande senso di protezione, dicevo. Per quello che avevo visto, per quello che era successo. Fuori e dentro di me. Ho pensato alle critiche, alle recensioni, alle opinioni dei miei amici che vivono all’estero e che ho deciso, in quell’istante preciso, di ignorare. Di fregarmene del dibattito culturale, del dover dire la mia, del dover prendere una posizione. Non me ne frega un cazzo. Perché questo film è stato importante. Per me. In questo momento. È un film che ripercorre, con la cieca ossessiva stanchezza di chi non può fare altrimenti, il desiderio, la ricerca, la dipendenza.



    Dipendenza da sostanze, dipendenza emotiva.

    Indovinate qual è la peggiore.



    Ed io, che spesso mi sono sentita randagia, alla disperata ricerca di qualcuno, di qualcosa, che potesse darmi da mangiare o almeno solo una carezza, mi ci sono vista dentro. Radiografata come quelle “mani ectoplasmatiche” che, ho scoperto poi, nel film di Guadagnino erano una ripresa integrale dal testo di William Burroughs.



    Jolly good fella, per chi non lo conoscesse.

    Rampollo di ricca famiglia, rinnega tutto e lo rinnegano perché queer, diverso, deviante. Uccise sua moglie, per sbaglio. Ma la uccise. E disse poi che, in assenza di quella tragedia, non sarebbe mai diventato uno scrittore. La scrittura è un baratro, per farla devi saltare nel pozzo nero di cui non conosci il fondo. E forse, quel colpo di pistola partito per caso lo spinse proprio lì.



    “Queer” è un film per chi sa tollerare l’incertezza. Per chi è disposto a capire che una risposta, spesso, non c’è. Per chi conosce il dolore sordo che si prova quando non si riesce a toccare qualcosa. Per quelli a cui al mattino, quando ci si sveglia, manca sempre un attimo il respiro.



    Non andatelo a vedere, se vi interessa sapere come va a finire.

    Perché “Queer” non va a finire da nessuna parte. Piuttosto, si chiede dove andiamo a finire noi. Dove va a finire il desiderio, quando anche l’ultima speranza scompare.



    “Queer” è un corpo che si veste elegante per coprire una ferita. Un cambiamento che si muove al ritmo di una condensa tropicale. Che si lascia attraversare come un’insonnia o una malattia.



    Ed io non scorderò mai la tragica emozione che ho provato

    Quando Lee, Daniel Craig, si inchina all’oggetto del suo desiderio

    E poi, preso da impacciato imbarazzo, capisce di essersi reso ridicolo.



    Quando tiri fuori i tuoi tesori più preziosi

    E ti rendi conto che dall’altra parte nemmeno c’è un rifiuto

    Ma una totale indifferenza.



    Quando hai messo tutti i tuoi organi sul tavolo

    E il tuo amante non ne dice nulla.

    Non sai nemmeno se li ha visti.

    Cosa resta, allora?



    Cosa fai, allora?

    Quella è la morte all’interno della vita.

    E no, non basterebbe la droga più potente del mondo per riprenderti da lì

    O magari per ucciderti del tutto.



    Grazie a questo film per essere diverso

    Senza provare a raccontarlo.

    Stay Golden

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