Influenzare: virtù o mestiere?

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  • 01.07.25
  • Su Instagram spiega ai suoi oltre sessanta mila followers Come Fingere di Aver Letto tutta una serie di libri, dai grandi classici ai casi editoriali più recenti: insomma tutti quelli che proprio non puoi non aver letto, pena la paralisi in certe conversazioni sociali. Ma se mancano al tuo appello, ecco, c’è ancora speranza: Lorenzo Luporini usa il web con lucidità tagliente, divertendosi e divertendo, e allo stesso tempo sa bene cosa significa influenzare e come destreggiarsi sulla sottile linea che separa, e unisce, l’oggetto cultura al mezzo digitale.



    REMIDA incontra Lorenzo Luporini



    L: Prima domanda: ma tu l’hai letto Persone Normali di Sally Rooney? Secondo me sì…

    L: Sì sì, l’ho letto. In realtà ho letto la maggior parte dei libri che fingo di aver letto.



    L: Come ti è venuta in mente questa idea?

    L: Nasce insieme a una amica e collega, Anna, alla fine del progetto editoriale “Venti”. Eravamo alla ricerca di un modo diverso di parlare di libri, non pedagogizzante ma divertente. Come direbbero gli antichi: che fa ridere, ma che fa anche riflettere.



    L: Ti definiresti un influencer? E cos’è, secondo te?

    L: Un influencer è qualcuno che acquisisce la maggior parte del suo reddito dalla vendita di spazi pubblicitari sui propri canali social. Quindi no, non mi considero tale anche se sarebbe interessante in termini di mercato. Il mio mestiere è fare la partita iva nel mondo dell'intrattenimento: parte dell’attività è creare contenuti per il web, ma il mio lavoro consiste principalmente nella scrittura (di copioni, pezzi di stand-up, format) e sempre più spesso nella conduzione.



    L: Cosa ti piace di più fare? Da quello che racconti c’è una componente pubblica ed una autoriale, che da fuori non si vede: come muoversi tra esporsi e non esporsi?

    Sono un grande fan dei format, che ti consentono di vendere qualcosa su internet che non sia la tua vita. È per me una scelta tutelante e anche meno spudorata, se vuoi, perché non ho quella distinta voglia-di-condividere-quello-che-mi-succede che magari caratterizza, anche proprio come persone, altri youtuber o creator. Quello che preferisco fare consiste in alcune cose che, prima di essere riportate su internet, accadono dal vivo. Come le stand up comedy, o come il format “Adesso capiamo” dove una volta al mese intervisto dal vivo personaggi dello spettacolo.



    L: È uscito da poco il tuo libro “Una storia in Comune”: come è nato?

    È stata un’esperienza molto bella e irripetibile legata a Fausto Colombo, straordinario sociologo italiano e professore “del cuore” del mio percorso triennale, purtroppo mancato durante la stesura. Ero alla ricerca di nuovo materiale di studio per arricchire “Venti” e la mia attività sul web, così gli chiesi consiglio. Oltre a darmi il consiglio, mi ha proposto di scrivere insieme un libro sulla cultura popolare. Da qui è nata l’avventura editoriale con Mondadori. È stato anche un bell’incontro generazionale, tra un uomo nato negli anni ‘50 e uno negli anni ‘90.



    L: Il sottotitolo è “Perché la cultura pop racconta chi siamo”: come ce lo spieghi?

    L: La metafora che uso più spesso deriva dalla lingua inglese: la cultura pop è il common ground, il terreno comune, su cui si edificano i rapporti sociali. Il libro si chiude con l’immagine di un pranzo di Natale dove la tradizione incontra tanti elementi della contemporaneità (famiglia allargata, multiforme, intergenerazionale): ecco, la cultura pop è quell’argomento che a tavola va bene per tutti.



    L: Secondo te cos’è un “prodotto culturale”?

    L: Per me è tutto quello che è frutto di industrie creative. E non esistono una cultura alta e una cultura bassa. Esistono una cultura fatta bene e una cultura fatta male, e questo ce lo dirà solo la loro durabilità nel tempo. Ho sicuramente un approccio anti-intellettuale.



    L: E il tuo, di prodotto, a cosa serve?

    L. Con un certo gusto, direi “a niente”. È un gioco, con vari livelli di interpretazione: per chi quei libri li ha letti veramente, che ne capisce i riferimenti. Ma anche per chi non li ha letti o per chi li ha odiati. Se poi qualcuno, incuriosito dal reel, va a leggersi il libro, questa è una felice esternalità ma non lo scopo primario ecco.



    L: Quello che vedo io, in questi video, è uno spaccato della società. Una fotografia di un target. Quanto la cultura può fungere da ponte, o da cesoia?

    L: Siamo in una società fatta da bolle di consumo. La bolla algoritmica ha frammentato la cultura, sono caduti i gatekeeper dei mass media e si sono create delle nicchie sempre più specifiche. Negli anni ‘70 cui c’era un solo canale TV, e un macro target indistinto. Nel mio caso, è interessante il fatto che i reel andati meglio siano quelli sui grandi classici, come se fossero degli “spezza-bolle”: Joyce, Kafka, Bulgakov.



    L: Cos'è che rende un oggetto “pop”?

    L: Proprio la capacità di trasportarti fuori dalla tua bolla di consumo. Quando guardo un pezzo comico mi chiedo: funziona solo a Nolo o anche a Lambrate e a Sassuolo? Sally Rooney funziona ovunque? No, ma è riuscita a trovare le varie Nolo nel mondo. Non è solo un fattore geografico, ma di classe e politico. Sanremo rompe la bolla, perché diventa un prodotto di costruzione identitaria: partecipi al dialogo sia che lo ami sia che lo odi, e lo fai per definire chi sei. Il libro scritto con Colombo parla proprio di identità, con il sottotesto per cui non esiste un’intrinseca identità italiana, ma una conversazione collettiva di cui far parte.



    L: Ultima domanda: alla fine della giornata, perché fai quello che fai?

    L: Bella domanda. Direi che è la cosa più simile che ho trovato al fare dei giochi, in tutte le forme: sedersi a un tavolo con altre persone, inventarli, interpretarli.



    A noi sembra che Lorenzo riesca proprio laddove non vuole. Non vuole orientare, non vuole insegnare. I suoi giochi non servono a niente: ecco perchè servono moltissimo. Dicci la tua a supernova@remidastudio.com.

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